Ciro Formisano esordisce al lungometraggio di finzione con una storia vera documentata dai giornali dell'era Monti, con il coraggio (rarissimo nel cinema italiano) di confrontarsi con l'attualità e fare nomi e cognomi, in particolare quello dell'allora ministro del Lavoro.
L'esodo prende la forma del melodramma quando racconta i retroscena della vita famigliare di Francesca, ma trova invece una misura di ironia nella situazione disperata e paradossale della donna. Alcune battute di dialogo (la sceneggiatura è di Formisano insieme ad Angelo Pastore) aprono lo spiraglio ad un'indagine più approfondita del contesto, ad esempio sottolineando la singolarità della situazione per quella classe borghese che "ha fatto il '68 e adesso fa la fame", e che cerca di mantenere a tutti i costi le apparenze di un benessere cancellato da certe scellerate politiche. E la narrazione evidenzia anche la difficoltà reale di trovare il tempo di unirsi a una protesta per chi è impegnato a lottare per la quotidiana sopravvivenza.
La forma filmica non è all'altezza dell'argomento trattato in quanto eccessivamente artigianale e debole nella recitazione di alcuni interpreti, soprattutto Rosaria De Cicco nei panni di un'improbabile zingara. Per contro Daniela Poggi è efficacissima nell'impersonare con grazia e dignità la protagonista, che chiede solo quello che le spetta e rifiuta di soccombere al degrado, conservando un filo di trucco e un sorriso pieno di speranza. Francesca è "una mendicante di Stato" ma rifiuta di riconoscersi soltanto in quell'etichetta.
Formisano merita senz'altro una seconda possibilità, con maggiori mezzi, un migliore sostegno produttivo e un cast all'altezza della Poggi per continuare a raccontare l'Italia di oggi non a distanza di trent'anni ma qui e ora, con urgenza necessaria.
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