Si parte da un romanzo, quello omonimo scritto da Matteo Righetti, lo si anticipa di un decennio e lo si riscrive per immagini con uno stile che non fa sembrare la dedica a Carlo Mazzacurati solo una questione di padovanità, e con protagonista un Marco Paolini all'opposto del loquace cantastorie che conosciamo dal teatro.
Si arriva a un racconto non solo fuori dalle traiettorie abituali del nostro cinema, ma anche dal tempo: volutamente antico, archetipico, e per questo universale ed eterno.
Un uomo che ha imparato a convivere col gusto amaro della sconfitta; un figlio che lo guarda pieno di speranza e di delusione; un orso chiamato "Il diavolo" da cacciare che è al tempo stesso opportunità di riscatto (piccolo, magari, ma pur sempre tale) e di un'avventura che sarà collante e formazione per l'uomo più grande e per quello che si sta facendo. Persone, azioni, poche parole, nella cornice maestosa della natura, dei monti e dei boschi delle Dolomiti che l'esordiente Marco Segato utilizza come nei western si utilizzavano le sierre, i deserti, le Grandi Montagne Rocciose.
Un western, appunto, quello di Segato, per ambienti e caratterizzazioni: un film che si sottrae ai canoni dominanti nel tratteggiare un percorso di crescita, che racconta di luoghi e personaggi aspri e politicamente scorretti, ma capaci di uno spessore e una solidità che oggi sono sempre più rare.
Il Pietro che Paolini interpreta con una ruvida e laconica intensità è un personaggio che non riconosce più il suo mondo, che sente l'odore di cambiamenti ai quali non si potrà mai adeguare, che trascina il peso dei suoi errori ma tenendo sempre la schiena dritta.
Come Pietro, La pelle dell'orso è un film dalla morale profonda e radicata, e dalla grande dignità, anche nell'errore. Un film felicemente fuori moda, portatore di istanze antiche e tutte da recuperare: quelle dell'attesa, dell'ascolto, di un'avventura e di una ricerca lontani dal clamore e dall'attenzione altrui che è prima di tutto quella dentro di sé.
www.comingsoon.it